Una notte intera al pronto soccorso con una persona cara e non bastano taccuini per definire i confini della paura. Luce livida di un corridoio d’ospedale e l’universo è tutto qua: nel pianto d’angolo di una donna giovane, una figlia che ha accompagnato il padre con il quale, mi dice, ha litigato, e lui dopo averla picchiata, si è sentito male. Lei allora lo ha portato qui per farlo curare, ignara o dimentica del fatto che sul viso e nei capelli sono chiari i segni di una lotta solo subìta. “Scappa, vola via”, vorrei dirle, ma me ne manca la tenerezza. Torna la paura di sbagliare.
Dio come è ingiusto il mondo! E quanto mi amareggia questa giovane testarda solitaria figlia di un padre “minore”.
Pochi minuti alla mezzanotte di un nuovo anno e sono qui a macerarmi il cuore: mi arriva un sms da parte di un'amica lontana, da piccola abbandonata dal padre e adesso, morta la madre, è rimasta competamente sola: "ti sono vicina con il pensiero", le rispondo. Ma mi viene da piangere, per lei. Non trovo niente di meglio da scriverle, non so darle l'abbraccio che le manca.
Subito arriva un’altra donna giovane, con un altro padre, che sembra abbia smesso di amare la vita; e lei che lo sgrida amorevolmente: “Papà devi farti curare”, lo riprende, “dobbiamo andare da uno specialista, ti accompagnerò io, sono tua figlia”.
E scuote in me il bisogno di credere nella bontà umana, negli affetti, nell’amore.
Voglia di inondare gli infelici di gioia, i disperati d'amore, i solitari di amicizia.
Voglia di abbracciare mio padre e mia madre che mi hanno sempre amata, per dire loro, con tutta la gratitudine che ho in petto, con la bellezza che pulsa nei miei ricordi e nei miei sogni: LA VITA E' (come dipingeva Charlotte Salomon) TEATRO. E VOI, MIEI ADORATI GENITORI, SIETE IL BENE NEL BENE.